![]() di Glauco Maggi A rileggere ora le tranquillizzanti parole con le quali Obama, prima e durante la Convention Democratica, aveva detto che “la marea della guerra sta recedendo” in Afghanistan e nel Medio Oriente, si capisce quanto ad essere deficitaria la consapevolezza della sua amministrazione sulla gravità della situazione di conflittualità internazionale e sulla esigenza vitale di un ruolo di guida degli Stati Uniti, da “adulto della compagnia”. La “primavera araba” è diventata il crogiuolo di un rigetto dell’America da masse di islamici militanti, più o meno infiltrati o diretti da Al Qaeda: la protesta, esplosa giorni fa in Egitto e in Libia con il drammatico e umiliante assassinio dello stesso ambasciatore americano e di altri 3 diplomatici, ha generato un contagio che ha coinvolto ormai una ventina di Paesi. La sede Usa a Sanaa, la capitale dello Yemen dove ci sono stati morti e feriti tra i dimostranti, è adesso protetta dai marines, come era già stato fatto per Tripoli e Il Cairo. Ieri c’è stato poi l’assalto all’ambasciata di Tunisi, di cui si sa che ha provocato almeno 3 morti e 28 feriti e che la polizia locale “per il momento ha fatto ciò che ci si aspetta dalle forze dell’ordine in questi casi”, come ha comunicato un membro dell’amministrazione Usa. E, ancora, attacchi in Oman e Giordania. Oltre che praticamente in tutto il mondo arabo, le azioni di guerra urbana che hanno messo sotto assedio l’America nell’ultima settimana si sono infine propagate all’Indonesia, dove Obama visse da ragazzino per anni, in India, Afghanistan e Pakistan. Un manifestante è stato ucciso nella città settentrionale di Tripoli in Libano, dove sono stati incendiati due ristoranti di catene Usa, KFC e Hardee’. Ma la causa scatenante della furia anti-americana è stato davvero il filmato su YouTube che offendeva Maometto, opera di un californiano di pessimo gusto, ma pur sempre un cittadino americano con il suo diritto di espressione? Oppure si tratta di una vendetta di Al Qaeda per l’eliminazione in Afghanistan da parte di un drone Usa del braccio destro di Al Zawahiri, il successore di Osama? Rapporti di fonti diplomatiche di Washington lo hanno detto, aggiungendo che i servizi segreti erano stati informati 48 ore prima della manifestazione del Cairo che ha dato il via all’offensiva. Il particolare è stato negato dalla Casa Bianca, e speriamo che sia la verità. In ogni caso c’è stato il serio errore dei servizi di sicurezza di Barack, che hanno ritenuto non pericoloso far viaggiare fino a Bengazi, praticamente senza protezione e segretezza adeguate, l’ambasciatore in Libia Stevens, appena rientrato da un viaggio in Europa. Per quanto i buchi nella sicurezza possano essere il segnale di una colpevole carenza di vigilanza, la vera radice della ribellione diffusa e sempre più sfrontata degli islamici estremisti è però il senso di assenza, di fiacchezza, anzi di teorizzato “disimpegno” che ha contrassegnato la politica estera di Obama sui teatri del rischio islamico da quando ha giurato da presidente. Barack è riuscito a fare infuriare l’alleato più fedele, Israele, sull’altare di una strategia attendista nei confronti della possibilità di un Iran nucleare, ma ciò ha ringalluzzito Ahmadinejad, che procede imperterrito all’arricchimento dell’uranio necessario alla bomba; e che fa anche vedere, con i test di questi giorni, che dispone già ora di razzi che possono raggiungere Tel Aviv e Gerusalemme. L’ Obama che adesso fa la voce grossa (“Nessun crimine contro di noi andrà impunito”) è un condottiero a cui non crede nessuno, né gli alleati né tantomeno i nemici. Dopo che ha abbandonato l’Iraq senza alcun presidio – e se ne vedono le conseguenze in termini di cambio dei punti di riferimento politico del governo di Bagdad – , e dopo che ha mostrato una esplicita impazienza di mollare al più presto Kabul, a prescindere dai rischi di una fuga precipitosa dall’area che comprende anche il Pakistan nucleare, chi può avere più alcun timore reverenziale per lui nell’intera e ribollente regione mediorientale musulmana? L’America è tornata ad essere la tigre di carta per i suoi avversari ideologici, e il suo simbolo più alto, la bandiera a stelle e strisce delle ambasciate, viene calpestata e bruciata. Carter perse le elezioni per una economia Usa in forte malessere e perché i fanatici islamici in Iran avevano “annusato” la sua inconsistenza e inflitto il duro colpo del sequestro dell’ambasciata Usa di Teheran. Terribile doppia coincidenza per Obama a poco più di 50 giorni dal voto. twitter @glaucomaggi |
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pubblicato da Libero Quotidiano
Il vero motivo della furia anti-Usa dell'Islam
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